"Sfida a
mezzanotte"
Quella sera soffiava un
vento gelido che spingeva i pochi paesani riluttanti verso le proprie
abitazioni alla ricerca di un ambiente caldo, dove consumare con i
familiari una cena riparatrice del fuggevole pasto di mezzogiorno e dei
disagi imputabili ad un inverno che proprio quell’anno si era
particolarmente accanito con acqua, bufere di neve, temperature gelide e
tramontana, sul tranquillo paesino dell’Italia centrale.
Raramente al paese avevano avuto inverni così duri.
Quello “mitico” del ‘29 era materia inesauribile dei racconti
degli anziani al bar che facevano a gara per aumentare i metri di neve
caduta in quell’anno.
Lo pensava proprio quella sera Aldo, il gestore del “Bar Commercio”,
che nonostante l’ora canonica del pasto serale sostava ancora nel
locale, bestemmiando per il ritardo della moglie con la quale si davano
i “cambi”.
Proprio un tempaccio.
La cosa non gli dispiaceva, il suo locale era adeguatamente riscaldato e
attirava più gente degli altri bar. Oltre che dotato di una bella stufa
e rilevanti canalizzazioni che mantenevano costante la temperatura,
c’era il modo singolare del barista di gestire il rapporto con i
clienti.
Del resto non era un caso se anche d’estate poteva vantare il maggior
numero d’ombrelloni aperti sulla piazza principale, a far da cappello
a giocatori di carte, calciofili, filosofi dell’ovvio, giovani
perditempo dai discorsi monotematici sulle ragazze.
Da “quelli” della politica che si miscelavano con “quelli” del
calcio che a loro volta intrecciavano discussioni con “quelli del
ciclismo”, tutti insieme a spettegolare di corna altrui con molti
presenti, più o meno inconsapevoli, soggetti delle storie narrate.
Al solito tavolo il temuto e rispettato Giovanni, “gigante” irsuto
delle granaglie, che unico si permetteva gli ordini “alla voce”
tuonando l’inconfondibile: “Aldo!!!!!……un Chivas”, intendendo
la marca più costosa di whisky. A fargli compagnia, mal sopportato, ma
come tutti i ruffiani, indispensabile per tessere la rete boccaccesca
che poi il nostro possente Casanova avrebbe raccolto con la preda
dentro, il barbiere Belindo.
L’ingresso del bar era sulla piazza, ma c’era una porticina nella
sala biliardo che, oltre a comunicare con i vicoli retrostanti, era
utilizzata come via di fuga per avventori in incognito nel caso di
visite inaspettate o inopportune.
Il signor Aldo era un uomo tarchiato, di forma a “barilote”, coi
pochi capelli sempre spettinati a formare due teorici “cornetti”
luciferini e l’immancabile “sinalone” legato in vita alla maniera
dei croupier, ma con l’aggiunta di alcune macchie leopardate
multicolori di varia estrazione e provenienza.
Il “Bar Commercio”, era punto di riferimento e ritrovo dei paesani,
anche se il carattere del proprietario non era dei migliori, ma proprio
le sue sfuriate, i litigi, il suo partecipare attivamente a tutte le
chiacchiere anche quando il suo “ruolo” ne avrebbe sconsigliato
l’intervento, rendeva il luogo “unico” e irrinunciabile.
D’altra parte dove potevano passare il tempo i giovani e gli anziani
delle famiglie del paese? Certamente non al paludato bar del “Circolo
Culturale”.
Maggior concorrente del sor Aldo e con vista a fronte il Circolo che
situato in cima alla via che portava in piazza, godeva di maggior
altezza, nel senso della struttura dello stabile e del “censo”
sociale dei suoi iscritti.
Nelle ampie e ben arredate sale si pavoneggiavano i figli, i padri e gli
zii, con rispettive signore, di quella borghesia di paese,
umoristicamente eccessiva e pomposamente fuori del tempo.
Il presidente era il signor Battista, un gemello del Vittorio de Sica
gloria del cinema nazionale, al quale somigliava in maniera
impressionante.
Sempre elegante, con la “farfalla” a pois e l’incedere
aristocratico, con unico neo lo scricchiolare delle scarpe ad ogni
passo; il suo passato era abbastanza misterioso, ma con un’elezione
tutta da raccontare.
Quella sera nella sala centrale del circolo la lotta, all’ultimo voto,
era fra il Generale in pensione e il Presidente della locale squadra di
calcio.
Nella sala, percorsa in modo febbrile dai supporter dell’uno o
dell’altro aspirante, l’unico quieto era un personaggio fin allora
sconosciuto: un signore di grand’eleganza e distinzione, compostamente
seduto, silente ed attento all’ennesima, inutile operazione di
scrutinio dei voti.
La presenza del quale fu notata da uno dei tanti “infiltrati” del
Bar Commercio, presenti in sala per seminare zizzania. Il ragazzo,
Alberto il suo nome, non era nuovo a burle e scherzi poi assurti
all’onore delle cronache paesane.
L’idea che gli balenò nel cervello fu la seguente: come nel calcio
paesano, un giocatore proveniente “da fuori”, al di là delle qualità,
otteneva immediatamente il posto da titolare in squadra, così lo
“straniero” in sala, col suo fascino misterioso, poteva influenzare
quel branco di pecoroni costituenti l’Assemblea e fungere da terzo
incomodo nella lotta, determinando una situazione inattesa con esito
imprevedibile.
Il passa parola e soprattutto il passa bigliettini di voto, ottennero un
risultato clamoroso, non solo si creò “casino”, che era lo scopo
reale dell’operazione, ma addirittura il sig. Battista, sconosciuto a
tutti, stravinse alla grande al primo ballottaggio, e fu eletto nuovo
Presidente del Circolo Culturale con grande scorno per i titolati
pretendenti e tutte le conseguenze festose al Bar Commercio, nel quale
si fece l’alba per il ridere ed il bere che un raggiante sor Aldo erogò
con abbondanza.
Basterebbe soltanto quest’aneddoto per comprendere, senza alcuno
sforzo, che l’inimicizia era nella pelle. Nulla accomunava i due
ritrovi e i suoi frequentatori, se non una: la passione per il gioco del
biliardo.
Un tappeto verde univa il popolo del paese: quello del calcio
domenicale.
Un tappeto verde lo divideva: quello della “stecca”.
Nei due luoghi antagonisti ci si preparava tutto l’anno per le due
sfide, una da giocare in casa, l’altra in trasferta, in giugno e in
gennaio, al meglio delle tre partite a “48” punti.
Con la fronte imperlata di sudore o con le dita intorpidite dal freddo,
i due campioni designati dalle rispettive “colonie”, si sfidavano
all’ultimo birillo.
Nei mesi successivi era sollazzo e prese in giro da parte dei vincenti,
fino alla successiva sfida dove i perdenti cercavano di rivalersi
sull’avversario.
La partita era vissuta in modo diverso dai due ambienti.
Al Circolo della Cultura, la maggior parte dei signori non più giovani
riponeva l’interesse in cose più “nobili”, come giocare il
cospicuo pokerino notturno, causa di tante fortune dilapidate e
brillanti carriere bruscamente stroncate.
Al Bar del Commercio, oltre la briscola ed il tressette “da
consumazione” non si andava e tutti seguivano la preparazione al
biliardo.
Meno uno.
Il sor Giovanni, commerciante in granaglie in Italia e udite, udite,
anche all’estero!
Questo particolare cliente, quando gli impegni di lavoro non lo
portavano nell’Est Europa, era presente tutti i giorni ai tavoli del
bar, per raccontare con l’immancabile bicchiere di Chivas in mano,
avvolto dal fumo dell’eterna sigaretta, circondato da ammiratori in
silenziosa adorazione, le sue avventure amorose con le belle straniere e
le spionistiche avventure oltre cortina.
Per lui, oltre il lavoro, le donne e il Chivas non s’andava; del
biliardo e del Circolo, non gliene poteva fregare di meno.
Quella sera, della quale narravamo in inizio di racconto, il barista
Aldo aspettava con impazienza il “cambio” da parte della moglie, per
ritornare rapidamente, dopo aver consumato una cena frugale, al bar
Commercio ed organizzare la sala per la riunione che avrebbe avuto come
”ordine del giorno” la disfida di sabato 23 gennaio.
Soltanto tre giorni per sapere…
A giugno, purtroppo, il campione dei “peones” era stato battuto
“in casa” dall’avversario, soprattutto per un incidente
verificatosi durante lo svolgimento della gara nella quale era in
vantaggio.
Era successo in un’uggiosa serata di giugno.
La sala, nel seminterrato del Bar Commercio, era gravida di popolo
tifoso grondante sudore, avvelenato dalla spessa cortina fumosa, che
seguiva in silenzio le carambole delle palle sul panno verde nel folle
balletto dei piroli.
Bisogna premettere che all’ingresso della sala, sulla destra, era
posta una panca per quattro/cinque persone, solitamente usata per lo
scherzo dello “straniero” che consisteva nel lasciare libero il
primo posto ed occupati gli altri. Quando un nuovo frequentatore si
sedeva sull’unico posto libero, gli altri quattro si levavano
contemporaneamente in piedi facendo volare per forza d’inerzia il
malcapitato in aria, accompagnato dai sollazzi dei frequentatori
abituali.
Orbene, nel momento in cui il campione del Circolo Broccolino tentava un
tiro “di calcio” a palla coperta, difficoltà massima e
l’attenzione nella sala era lancinante, il campione di casa, il sor
Penni, decideva improvvidamente di sedersi sul posto dell’impiccato;
quelli della panca, fosse la tensione o la disattenzione, abituati a
quel movimento, meccanicamente s’erano alzati, determinando
l’immancabile capitombolo del “nostro”.
Le conseguenze furono pesanti.
A partita iniziata le sostituzioni non erano ammesse e il sor Penni pur
continuando con orgoglio ed abnegazione per la causa, perdette in malo
modo.
La sconfitta angosciò il sor Aldo che, dato il carattere nervoso, si
rifece coi quattro panchinari duramente malmenati e cacciati a tempo
indeterminato dal bar.
Tutta l’estate fu un tormento, non fosse altro per il modo nel quale
era maturata la sconfitta.
Dal terrazzo del Circolo, lassù in alto, gli scherni e i sollazzi erano
quotidiani e non bastavano certo le mani alzate a mo’ di corna, per
sollevare dubbi sull’onorabilità delle Signore, a chetare i
vincitori, cornuti ma contenti.
S’attendeva il “ritorno” da giocare fuori casa, ma da vincere con
tutti i mezzi: leciti ed anche, perché no, illeciti.
Nella riunione della serata bisognava decidere il sostituto del signor
Penni.
S’era fatto di tutto per rimetterlo in sesto e lui stesso aveva
provato e riprovato, ma lo spostamento di due costole abbisognava di ben
altri tempi per recuperare e a malincuore avevano dovuto alzare bandiera
bianca.
Il sor Penni era un giocatore sopraffino, della scuola sudamericana,
dalla quale aveva mutuato lo stile perfetto col quale interpretava il
tango “figurato” nei veglioni di carnevale.
Longilineo, coi capelli tirati a brillantina e divisi lateralmente da
una riga geometrica, eleganza all’inglese mai vistosa fatte salve le
scarpe bicolori, foulard al collo e sigaretta montata su bocchino
d’ambra: era il cuore delle donne che lo mangiavano con gli occhi, ma
i suoi interessi erano altri.
Se un ipotetico forgiatore d’uomini avesse dovuto costruire un modello
opposto al suddetto, non poteva far di meglio che aver creato il signor
Broccolino, l’avversario di sempre.
Questi era un commerciante di pellami che dell’olezzo relativo non
riusciva mai a liberarsi.
Nonostante ciò era considerato un gran cacciatore di donne o almeno per
tale si accreditava, con qualche perplessità degli auditori soprattutto
perché considerato di “bocca buona” contentandosi di qualunque
soggetto respirasse.
Il suo era un non stile: uomo grossolano, gran lavoratore, si era
arricchito e negli affari andava per le spicce adoperando spesso le
maniere forti, avendo in gioventù tirato di boxe.
Al biliardo però era un satanasso, non aveva certo lo stile del Penni,
ma era concreto ed efficace.
Avversario mai domo e duro da battere per chiunque, non disdegnava
trucchetti che mai avrebbe adottato l’avversario.
Ora per sfidare questo maglio si doveva trovare, rapidamente, un
fuoriclasse all’altezza del compito e soprattutto con la certezza che
lo battesse.
Dopo tre ore di dibattito litigioso, dove si era rischiata la rissa
quando il Bellini per l’ennesima offesa rivoltagli di eccedere nel
bere, era uscito, rientrando dopo pochi minuti mulinando la pala da
muratore bloccata dal pronto intervento del sor Aldo, si arrivò
all’ovvia ed unica conclusione: al paese il “campione” non
c’era.
Dovendo comunque designare l’uomo della “sfida di mezzanotte”, si
procedette per votazioni successive arrivando più volte allo scontro
fisico, con lancio di cestini, cappotti, berretti ed anche dell’ultima
“pasta” rimasta sul bancone che guarda caso è chiamata “bomba”.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso: il sor Aldo con passo svelto
aprì la porta principale del bar e in un baleno spalancò quella
secondaria.
La forza della natura che premeva da giorni per entrare nel locale e
n’era stata respinta, si prese la sua rivincita. Un turbine di vento
gelido fece volare tutto quanto riuscì a sollevare: cappelli, giornali,
ombrelli, un vecchio quadro raffigurante figura di donna discinta ed il
telo verde del biliardo che provetto aquilone veleggiò sulle teste
degli astanti.
Tutti cercarono di difendersi come potevano e in questo sforzo
sbollirono i loro spiriti.
Qualcuno tentò vane proteste che il ghigno del gestore scoraggiarono
dal proseguire.
In poco tempo si stabilì che, per quanto ancora giovane, Giorgio
Mondroni era il più dotato ed avrebbe rappresentato un’indubbia
sorpresa nel campo nemico: fu votato all’unanimità, complice la
solita “truffa Alberto” suo intimo amico.
Mentre si ultimavano le ultime operazioni di conta, Aldo, seppur
soddisfatto per la sua opera unificatrice, non lo era affatto per la
scelta, seppur inevitabile.
Qualcun altro, all’esterno, sorrideva soddisfatto, ma per le ragioni
opposte a quelle del barista.
All’angolo della casa dei Rossi, il “colonnello”, appoggiato al
suo scopone, il corpo deforme ed inerte, simile al monumento che in
mezzo alla piazza celebrava l’eroina del paese, aveva spiato per il
Circolo e questo nessuno poteva immaginarlo.
Il povero ragazzo, nato gobbo e per questo oltremodo dileggiato dagli
assidui clienti del Bar Commercio, era figlio d’una famiglia umile.
Il soprannome di “colonnello” gli derivava da quest’episodio:
gettatosi dal secondo piano della povera abitazione ed essendo atterrato
senza gravi conseguenze, ai primi soccorritori che chiedevano increduli
come si fosse salvato, il ragazzo farfugliò con voce nasale: “coll’ombello!”,
ed, in effetti, lì nei pressi un povero ombrello giaceva, fiero del
salvataggio.
Da quel “coll’ombello” a “Colonnello” ci volle poco, in quel
paese dove anche le mosche avevano il soprannome.
Il “colonnello” era per la sua povera natura fatto bersaglio
d’ogni genere di scherzi volgari e pesanti e per reazione alle
umiliazioni quotidiane era diventato la perfida “quinta colonna” del
signor Maurizio, suo capo al dipartimento della nettezza urbana e
soprattutto facente funzioni di consigliere al Circolo della Cultura.
Quando il nostro Giuda, con passo sbilenco, entrò sogghignante nel
salone al primo piano del Circolo, trovò Maurizio al tavolo del poker;
bastò uno sguardo e i due s’appartarono nella saletta della
segreteria.
Maurizio teneva giustamente nascosto il loro vero rapporto, altrimenti
il suo informatore sarebbe stato bruciato in tutti e due i sensi:
metaforico e reale.
Gli iscritti del Circolo, vedendoli insieme, pensavano che il capo
dipartimento stesse comandando il lavoro per il giorno dopo.
Quando la notizia passò dalle labbra del “colonnello”
all’orecchio di Maurizio, la certezza e la gioia di festeggiare un
carnevale “brasilero” pervase il consigliere che, liquidato il suo
“agente” lasciandogli per l’indomani giornata libera, radunò con
discrezione il gran consiglio.
Erano presenti, il presidente signor Battista, il vicepresidente dr.
Pecchio, il segretario Mario Cingoletti, uno dei probiviri il
maresciallo Chieti, il Broccolino, il miglior esperto di biliardo e suo
compagno di allenamento il Sor Cesare e Maurizio che comunicò loro la
notizia.
Sorrisetti mal celati, toccatine benauguranti, richiami alla discrezione
ed al silenzio e soprattutto: “calma e gessetto”.
Furono messi a punto gli ultimi particolari per l’organizzazione della
serata che avrebbe visto l’arrivo degli odiati rivali; fu incaricato
il Cingoletti dell’approvvigionamento di una partita di bottiglie di
“schiumante” di marca per i festeggiamenti.
Ormai la domenica era vicina, il tempo stringeva, soprattutto per gli
avversari.
Al Bar Commercio, nei due giorni successivi fu come alla vigilia dei
grandi match di pugilato, tutti intorno al biliardo, silenzio in sala e
allenamento continuo del giovane Mondrioni sotto gli occhi esperti del
Penni.
Questi, seduto dolente sul ballatoio, impartiva direttive come
l’ammiraglio Nelson dalla tolda del suo “Victory” a Trafalgar
prima della vittoria, con l’unica differenza che neanche il più
inguaribile degli ottimisti avrebbe scommesso una lira su quel pivello.
Era talmente alta la tensione per gli allenamenti, che il popolino del
Bar trascurava i maneggi giornalieri della bella pizzicagnola che
solitamente faceva girare le teste, secondo i suoi spostamenti
all’interno del negozio, alternativamente a destra e sinistra, come
avviene nelle partite di tennis.
Ciò provocava la felicità di Alfonsino, un rosso dai piedi piatti di
mezz’età, che mentre aiutava nei lavori della salumeria, gustava in
esclusiva, ogni mossa, della Venere, pur consapevole che quel bocconcino
e quelle forme, erano destinate al “tocco” del Sor Giovanni
Tettavalle.
Il ruvido dongiovanni, dall’interno del poderoso Mercedes parcheggiato
di fronte al negozio, inviava l’ambasciatore Belindo a perfezionare
gli ultimi particolari per l’incandescente serata.
Al mattino della domenica il vento di tramontana, che aveva imperversato
per giorni interi, era all’improvviso caduto, lasciando il campo al
silenzio inquietante che precede la tempesta, ma al momento il cielo era
terso e la giornata festiva stupenda per colori e nitidezza di
paesaggio.
Alle undici ci fu il rituale della chiacchiera in piazza, l’uscita
della messa, lo “struscio” dei ragazzi con le ragazze, il pranzo, il
derby calcistico del pomeriggio col paese vicino. Le scazzottate con gli
avversari e il classico inseguimento dell’arbitro, reo di aver
concesso un rigore inesistente che aveva determinato la sconfitta dei
“nostri”.
Fin li tutti i paesani, signori e plebei, s’unirono nei rituali
suddetti.
Ma a partire dalle sei del pomeriggio il gelo scese sul proscenio della
sfida serale.
La bomba esplose, inattesa, alle 11 di quella sera, all’arrivo della
delegazione del Bar Commercio nella sala da biliardo del Circolo della
Cultura, gremita di tifosi assetati di sangue per la sfida di
mezzanotte.
Da detonatore fece l’arrivo inatteso, nella mattinata, di Aurelio,
nipote del Sor Quintino, macellaio del paese e padre del giovane
Alberto.
Aurelio era il figlio di sua sorella Elvira residente a Lecco.
Ora, cosa c’entri tutto questo con le vicende fin qui narrate sarebbe
difficile da spiegare, se non per un particolare per nulla trascurabile:
Aurelio era campione regionale di biliardo della Lombardia, ma nessuno
ne sapeva nulla.
Lo scoprì per caso, parlando con lui a tavola, Alberto che da quel
momento non riuscì ad ingoiare nemmeno un bicchier d’acqua.
Il suo pensiero, lungi dal farsi corrompere da altri ragionamenti,
correva alla partita di biliardo, alla più che probabile sconfitta ed
al miracolo manifestatosi coll’apparizione di suo cugino Aurelio che,
cinta l’aureola, avrebbe guidato alla vittoria il suo bar.
Come il Sor Quintino si assentò per imprescindibili necessità
fisiologiche, Alberto mise in atto una rapida fuga da casa che, pur non
essendo una novità assoluta, (per solito avveniva per i tetti,
essendogli preclusa la porta dalla figura minacciosa del babbo), lasciò
i commensali di stucco.
Col cuore in gola, risalì ansimante il vicolo, entrò nel Bar dalla
porta sul retro, scese le scalette che immettevano nella sala del
biliardo e crollò sulla brandina che era usata dal sor Aldo per il
notturno.
Nella saletta era presente il team al gran completo: Giorgio Mondrioni
alla stecca con il sor Penni alla “consolle”, il sor Aldo
dall’alto del vano bar con cipiglio imbronciato all’indirizzo degli
avventori che avessero tentato l’ordinazione. Gli altri silenti e
preoccupati seguivano le evoluzioni delle palle e dei piroli che, in
realtà erano involuzioni in quanto il Giorgio, emozionandosi per
l’avvicinarsi dell’ora fatidica, peggiorava le proprie prestazioni.
Quando i presenti videro Alberto in quelle condizioni, pensarono che a
differenza di altre volte, fosse stato raggiunto dal sor Quintino e
giustiziato. Con l’aiuto di un cognacchino decifrarono da quelle frasi
sconnesse la grandiosità del messaggio e nella sala calò un silenzio
irreale.
Il sor Aldo, come sempre, ebbe la reazione più rapida: cacciò in malo
modo i pensionati già nel mirino per il nulla consumare, corse ad
abbassare la serranda di accesso al bar collocandoci la scritta
“chiuso per la partita di calcio”.
La discussione iniziò non appena Alberto si fu ripreso e vertette non
tanto sul tentativo d’ingaggio immediato e segreto del campionissimo,
ma su come affrontare la cosa col sor Quintino.
Qualcuno sorriderà, ma per l’incoscienza o la non conoscenza del
soggetto che andiamo a trattare.
Il sor Quintino, uomo dal cuore d’oro che sfamava gratuitamente tutte
le famiglie bisognose dei vicoli, era però un iroso “bastian
contrario”, allergico ad ogni forma di autorità, nemico giurato del
potere in qual si voglia sua forma si configurasse: sindaco, prete,
farmacista, direttore della locale banca e via dicendo.
Il tutto non per un motivo specifico ma solo perché agli occhi dei
compaesani rappresentavano qualcosa d’importante e lui l’importanza
la riconosceva soltanto alla bella carne, alla “coppa”, alle
salsicce e soprattutto alla caccia, sua unica passione assoluta e
totale.
Al minimo sgarbo su queste materie scattava la terribile reazione.
Il figlio Alberto ne sapeva qualcosa, le rincorse sui tetti da parte del
babbo, erano ormai proverbiali.
Ora affrontare in una siesta domenicale il sor Quintino, con in casa
quattro o cinque fucili carichi a portata di mano, non era cosa da
ridere.
L’idea vincente non poteva venire da altri che non fosse il figliol
prodigo, che suggerì il coinvolgimento del compare Zerbino, grande
amico di famiglia, compagno di cacciate appassionanti del nostro
macellaio.
Sulla “millecinque” Fiat, messa a disposizione e guidata da Terzilio
il noleggiatore, presero posto con gran difficoltà: Alberto, il
barbiere Piedipiatti, Rossi (famoso antiquario di mobili antichi
religiosi, di dubbia provenienza), Bruno Fretti, supertifoso della
Juventus e Ginetto il fruttarolo.
Il sor Aldo col Penni continuarono l’allenamento del Mondrioni, nel
caso in cui il tuonare del fucile avesse messo fine al bel sogno finora
soltanto accarezzato.
La banda fece tappa al macello del sor Quintino dove, con la doppia
chiave, Alberto trafugò vari “tagli” di prima scelta da usare come
viatico col compare.
La regalia e la promessa dell’uso della bicicletta da corsa nuova
fiammante di Alberto fecero breccia nel buon cuore di Zerbino che,
comunque aveva già deciso autonomamente, ma si guardò bene dal dirlo,
di andare a trovare il compare per proporre una battuta di caccia per
quella nottata.
Così ci guadagnarono tutti, meno Quintino che alla riapertura del
negozio, scoperto l’ammanco, avrebbe cercato di saldare i conti con
chi sapete voi, naturalmente senza riuscirvi, come sempre.
Il compar Zerbino salì le scale di casa, con Alberto ben allineato e
coperto dietro di lui e trovò la Sora Lella che giocava a briscola col
nipote Aurelio e sul comodo divano l’organo a settantacinque canne di
Quintino in piena funzione, talmente impegnato in quel roboante concerto
che soltanto l’uso dei richiami da caccia riuscì nell’opra di
risvegliarlo.
Non appena l’ingannevole squittire del tordo giunse all’orecchio del
sor Quintino, l’aprire gli occhi e imbracciare la doppietta in
posizione di sparo fu un tutt’uno e soltanto la visione del compare, a
braccia in alto, in segno di resa, non fece scattare i due cani del
fucile.
Tutto sommato non fu così difficile ottenere il benestare
all’utilizzo del nipote, bastò scambiarlo con la promessa di un
nugolo di storni e beccacce, avvistati nella campagna e pronti per
finire sul bancone della macelleria: per il primato cittadino del Sor
Quintino, miglior cacciatore al cospetto dei tanti invidiosi
pretendenti.
Aurelio, accettò con entusiasmo, felice di sfuggire alle grinfie
dell’invadente zia e alla briscola, in favore di un sicuro
divertimento ai danni di quei poveri provinciali.
L’affare era fatto.
La brigata s’incamminò festante per il vicolo con destinazione Bar
Commercio, pregustando una serata da non dimenticare.
Il Sor Quintino e il compare Zerbino, pregustando un cannoneggiamento
nella campagna di Ospedaletto.
Alle 11 precise, la delegazione del Bar Commercio fece il suo ingresso
solenne nella sala da biliardo del Circolo della Cultura gremita di
tifosi starnazzanti per…… la sfida di mezzanotte.
Quando l’Aurelio, accompagnato dal Sor Penni, dopo aver salutato il
pubblico con un aristocratico inchino, si diresse alla rastrelliera
delle “stecche” per la scelta dello “strumento”, dal proscenio
si levò un “ooohhhh!” di stupore.
Broccolino, che si stava scaldando da oltre mezz’ora, provando stecca
personale e tiro sul campo di gara, quando si vide porgere la mano
dall’emerito sconosciuto e capì che sarebbe stato il suo sfidante,
cercò con lo sguardo, in mezzo al pubblico, il sor Cesare.
Ma il sor Cesare, già all’ingresso della delegazione in campo,
vedendo quel volto non conosciuto ed avendo frequentato le più titolate
sale da biliardo della Capitale, aveva avvertito un disagio crescente,
intuendo che qualcosa non andava, e mentre lo sguardo del Broccolino
monitorava la sala alla sua ricerca, egli era già arrivato, col suo
incedere sincopato alla porta della Presidenza, aveva bussato ed era
entrato, carico di dubbi e foschi presagi.
All’interno trovò un Signor Battista piuttosto agitato, intento a
riempire una valigetta con documenti ed effetti personali. Messo al
corrente della situazione imprevista, non mostrò grande interesse.
La cosa non sorprese il sor Cesare, che aveva già notato altre volte la
stranezza del personaggio e la poca partecipazione alle vicende del
Circolo, ma in quella circostanza la cosa lo preoccupò particolarmente
e con maniere energiche e parole spicce lo convinse a recarsi nella sala
del biliardo.
Quando entrarono nell’arena strepitante, i due contendenti stavano
“arrotando” le stecche col “gessetto”, le due palle parallele,
pronte per l’accostaggio che avrebbe determinato il diritto al primo
tiro.
Il presidente del Circolo Culturale, riavutosi dal suo torpore, afferrò
energico il microfono e col suo stile forbito richiese ed ottenne il
silenzio assoluto ed attaccò:
“Questa straordinaria disfida è stata sempre disputata da concorrenti
locali, poiché mi sembra di capire che il signor…?”
Qualcuno dal pubblico mormorò: “Aurelio” ed il sor Battista, “che
il signor Aurelio, non fa parte del consesso paesano, senza
alcun’offesa per lei, evero, ritengo che soltanto il benestare del
nostro caro Broccolino possa autorizzare l’avvio di questa nobile
tenzone.
Diversamente ci vedremmo costretti ad annullare la gara.”
Il suo parlare magniloquente e la velata minaccia di una serata tanto
bramata mandata in fumo, colpì la platea che, insolitamente silenziosa,
rivolse la sua attenzione al campione del Circolo.
Il Broccolino non conosceva la paura anche se le viscere consigliavano,
col loro sommovimento pericoloso, una certa cautela.
Guardò il tavolo della giuria e finalmente incrociò gli occhi del sor
Cesare che inviò il messaggio tramite lo scuotimento orizzontale della
testa: “NOOO!”.
L’allievo, nel silenzio più assoluto, vide in quell’interminabile
attimo sfumare la possibilità di passare alla storia delle sfide
cittadine come colui che aveva respinto l’assalto straniero alle mura
del suo “Circolo”. Così, forte della propria sbruffoneria, tuonò
il fatidico: “SI !!”.
La sala scoppiò in un irrefrenabile giubilo, alimentato soprattutto dai
“nostri” conosciuti furbacchioni che unici in quel consesso si
potevano leccare i baffi, davanti ad un bel Broccolino cucinato arrosto
con patate.
Ad un imperioso gesto del temuto probiviro Chieti la sala zittì.
Il sor Cesare inquieto fumava nervosamente l’ennesima “muratti”.
Col classico scorrimento delle stecche sul pollice e l’indice della
mano sinistra formanti una forcina, il tocco impercettibile del puntale
sulla palla, s’iniziò il match.
Era l’accostaggio per stabilire chi, dei due contendenti, dovesse
tirare per primo.
Il dolce ruotare delle sfere verso la sponda di partenza. Il silenzio.
Gli ultimi impercettibili giri delle palle.
Quella del Broccolino ferma ad un centimetro dalla verde proda,
l’altra a baciare.
Un vulcano eruttò nella sala, scaricando tutta la tensione accumulatasi
nelle ultime giornate, ore, minuti e furono rombi, lava, cenere e
lapilli.
Finalmente si giocava.
Al primo tiro, del primo “quarantotto”, Aurelio mandò con tocco
perfetto la palla avversaria sui piroli che crollarono tutti sul panno e
poi come telecomandata terminò la corsa nelle fauci della buca.
“Due.. quattro.. sei.. otto…e quattro fanno dodici, più due della
buca: quattordici!!!” compitò il “Barone” Armando addetto alle
“palline” colorate che segnavano i punti dei due contendenti.
I supporter del Bar esultarono a lungo, il Broccolino guardò
sconcertato verso il posto occupato in precedenza dal sor Cesare, ma lo
trovò vuoto come il suo stomaco secernente acidi gastrici letali.
Il presidente col Cesare ed il segretario Cingoletti erano chiusi nel
salottino attiguo.
Dopo un breve parlottare decisero che il Cingoletti Mario, centralinista
del Posto Telefonico pubblico, avrebbe raggiunto la sua postazione
giornaliera e preso contatto coll’Associazione nazionale biliardo per
scoprire qualche cosa sul conto del misterioso straniero.
Già al primo colpo il Sor Cesare aveva capito con chi avevano a che
fare.
Al “Commercio”, Aldo sostava dietro la vetrina del suo bar vuoto e
si godeva in pace l’ennesima “esportazione” senza filtro,
guardando, in lontananza, le finestre illuminate del Circolo e prestando
orecchio ai rimbombi che da esso giungevano.
Era certo del risultato finale della gara e comunque mai era andato in
campo avverso, i suoi piedi si sarebbero rifiutati di varcare l’odiata
soglia.
Nella piazza vuota, illuminata fiocamente dai lampioni, comparve
all’improvviso, strisciando rasente i muri, una figura sghemba, con le
lunghe gambe magre che aravano rapidamente l’asfalto.
Quando fu di fronte alle vetrate del Bar Commercio, istintivamente gettò
uno sguardo sfuggente all’interno, ma fosse per i pensieri che gli
correvano in testa o per la miopia cronica, non vide nemmeno lo sgradito
spettatore di quella sua cavalcata notturna e proseguì
“stortignaccolo” verso il posto telefonico pubblico, laggiù in
fondo alla piazza.
Il sor Aldo invece lo aveva riconosciuto subito e cominciò a
preoccuparsi: “Il Cingoletti, durante la gara che va al lavoro? Non può
essere…a meno che…”.
Nella sala fumosa, la partita si stava trasformando da tragedia in
farsa.
All’inizio il pubblico seguiva con partecipazione rumorosa la sfida ed
era attento e nervoso, ma coll’andare delle carambole, dei colpi più
spettacolari dell’Aurelio e di contro coll’affannarsi di Broccolino
che oltre a non raccogliere un punto, non riusciva nemmeno a colpire la
palla avversaria, cominciò a rumoreggiare all’unisono.
In aria già volavano cartocci di vecchi giornali e la situazione
rischiava di degenerare.
Alla caserma dei carabinieri il maresciallo Casella si apprestava a
salire sulla camionetta con due militi, il suo volto inespressivo
nascondeva un gran turbamento, la destinazione era il Circolo Culturale.
Il centralinista Cingoletti dopo aver armeggiato nervosamente con gli
spinotti, ottenne la comunicazione desiderata. Dopo le prime risposte
alle sue domande, il suo volto scheletrico da cinereo divenne nero di
rabbia, le spesse lenti da miope volarono in aria.
Lasciata la comunicazione aperta e il posto incustodito, si precipitò
di gran carriera, per quanto consentitogli da quella struttura
dinoccolata, nella direzione del Circolo.
Il sor Aldo che non s’era spostato d’un centimetro dal primo
passaggio, assistette al secondo con turbamento misto a disperazione:
era del tutto evidente che la “partita” si metteva male ed allora
spense le luci, serrate le porte, prese cappello e data la buonanotte ai
“suonatori”, si recò da Venanzia, eterna consolatrice delle anime
in pena.
Mentre la camionetta dei carabinieri parcheggiava davanti al cinema,
locale attiguo al Circolo, ed il segretario Cingoletti imboccava di gran
carriera la rampa delle scale del medesimo, una lussuosa Lancia
“Ardea” arrivava da Perugia con all’interno tre signori di gran
classe, vestiti con abiti scuri e garofano all’occhiello, accompagnati
da altrettante signore emananti grande charme.
Nella sala biliardo del Circolo la partita era giunta all’ultimo atto.
Dopo il primo “48” a zero punti, anche il secondo stava terminando
nella stessa maniera.
Il Cingoletti irruppe concitato in sala, si precipitò al tavolo del
presidente e, dopo un breve conciliabolo col sor Cesare, afferrò il
microfono, accese l’amplificatore e chiese con voce tremolante il
silenzio.
L’Aurelio, con la stecca in mano, non riuscì a tirare un
“rinquarto” finale che avrebbe sancito la fine delle ostilità.
Il signor Battista, presidente del Circolo della Cultura, prese la
parola con aria solenne:
“l’incontro ha da considerarsi nullo, lo sfidante sig. Aurelio Fanti
è un professionista, campione della Lombardia, pertanto la vittoria va
a tavolino al signor Broccolino, campione del nostro Circolo, ora ci
attendiamo pubblicamente le scuse da parte dei rappresentanti del bar
Commercio.”
Dopo pochi attimi di sbalordito silenzio, la sala esplose in un boato di
proteste, accuse, invettive e contraccuse.
I più facinorosi dei campi avversi cercarono di passare alle vie di
fatto, ma non vi riuscirono perché irruppe nella sala, con tutta
l’autorità conferitagli dalla divisa e dal categorico cipiglio, il
maresciallo Casella coi due carabinieri: le parole che pronunciò dal
microfono fecero il resto.
“Signor Battista, la prego di seguirci in caserma: la dichiaro in
arresto per falsa identità, truffa aggravata, appropriazione indebita,
falso in bilancio, peculato ed abbandono del tetto coniugale.”
A questa terribile sentenza il falso signor Battista divenne paonazzo e
svenne.
Soltanto in seguito si seppe che don Ciccillo Chiuccio, noto truffatore
di Aversa, discendente da una nobile famiglia del posto, aveva sin da
giovane dissipato la sua esistenza con ogni sorta di mal comportamenti,
girovagando per l’Italia, inseguito da mandati di cattura fino ad
allora andati a vuoto ed approdato per l’ennesimo raggiro al paese che
ben conosciamo.
Ma torniamo sulla scena del “delitto”.
Nell’accumularsi di tutti quegli avvenimenti, nessuno aveva notato
l’arrivo in sala dei tre signori in redingote e delle signore in abito
lungo, ma dopo che il Chiuccio ripresosi dal malore era stato trasferito
nella locale galera, lo sbalordimento di tutte e due le compagini lasciò
il campo alla curiosità per quell’insolita compagnia.
E come nella vita ogni dolore è mitigato dalla ricerca di una
consolazione che aiuti a tirare avanti così in quell’amara
circostanza il dottor Pecchio, facente funzione di Presidente
pro-tempore, presentò con il microfono i fratelli Angeletti: il
cavalier Virgilio e il professor Gianni, con le rispettive consorti,
benemeriti del paese e ben introdotti nei migliori circoli del
capoluogo.
Essi stessi presentarono il terzo Signore: il Campione del Mondo in
carica Pablo Suarez, a Perugia per un’esibizione al famoso Circolo dei
Filandoni e grazie a loro qui in sala per una pubblica dimostrazione
individuale.
A questo stupefacente annuncio fece seguito un uragano di applausi,
urla, grida e fischi alla pecorara (Alberto, Mondrioni e soci).
Altrettanta gioia non poteva provare il povero Ciccillo Chiuccio che
dalle sbarre della piccola cella, privato delle stringhe delle scarpe e
del suo papillon, meditava amaramente sulla sua vita scellerata e
contemplando il cielo stellato ricordava le parole di suo padre:
“Attento Franciè, le palle male adoperate giocano sempre brutti
scherzi!”.
Sotto quello stesso cielo, ma in tutt’altra posizione, nella campagna
silenziosa, una macchina di grossa cilindrata col motore spento era
comunque scossa da convulsi fremiti.
All’interno, Giovanni Tettavalle stava raggiungendo l’estasi per
merito dei pregevoli servigi orali dell’avvenente salumaia.
Al chiarore della luna, qualche chilometro più in là, il Sor Quintino
ed il compar Zerbino, fregandosene di tutte quelle stronzate paesane,
attendevano fiduciosi l’arrivo di uno stormo di pasciute beccacce.
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