Il Romanzo del mese

www.perugia.com

La stufa "todesca"

All'età di cento e un anni, Amicucci Amadio, circondato da figli, nipoti e pronipoti, salutò quel mondo che aveva attraversato senza badare troppo ai compagni di strada. Le parole di commiato che l'ultra centenario pronunciò nell'ora fatidica, furono involontariamente ironiche. Guardando il lampadario acceso come fosse la Luce Suprema in attesa, egli lamentò fiocamente: "Tutte a me!"....."Tutte a me!" Nel senso che in una vita premiata dall'assenza di malattie, le uniche due volte che v'era inciampato, era stato condannato senza appello. La seconda era quella sopra descritta, la prima andremo testè a narrare. Amicucci era un abruzzese di Tagliacozzo in provincia di l'Aquila, era nato nel 1868 e di quella terra conservava la testardaggine e la fierezza. Aveva iniziato a lavorare sulla ferrovia fin da ragazzo ed in quelle terre così impervie e selvagge, aveva forgiato una durezza di carattere che sarebbe stato il propellente per sopravvivere oltre il secolo. Era stato insignito di medaglia d'oro dal sindaco del paese, come primo centenario e di quella festa che radunò parenti da mezz'Italia, il mio ricordo interessato, va ad una cuginetta mai conosciuta prima, che infranse il mio cuore, ancora impreparato a simili emozioni, per mesi e mesi. Il vegliardo non era propriamente un "nonnino" che raccontava le fiabe ai nipotini. Noi ragazzi, giravamo alla larga dallo scontroso padrone dell'orto dei nostri giochi. Una volta, ricordo, avevamo riempito un sacco di juta da 25 chilogrammi con la sabbia ed appesolo al ramo del nòcciolo, imitavamo i boxeur, colpendolo con le mani chiuse a mo' di pugni, fintando col corpo ora a destra ora a sinistra. Mentre si esercitava mio cugino, vidi arrivare il vecchio e conoscendolo bene, riparai in territori più sicuri. La realtà superò la finzione, perché Marco finì realmente knout out come un vero pugile, colpito in pieno dal sacco lanciatogli sulla schiena dal nonno, geloso proprietario di qualunque cosa fosse contenuta nel suo orto che era ormai diventato la sua vita. In quel suo "paradiso", Amicucci, ormai pensionato delle ferrovie, aveva piantato ogni genere di colture, dalla vite ai pomodori, alle spezie, albicocchi e fichi, uno straordinario ciliegio che era nostra appetita "preda" notturna. Già, notturna! Infatti, mai per tutta la vita, avremmo rischiato un assalto diurno. Il rischio era troppo alto, il pericolo si poteva celare, come abbiamo visto, dietro la pianta e le conseguenze pesanti. Il nostro nonno-bis, durante il giorno, riposava in un capanno in lamiera che aveva costruito vicino ad una specie di vascone pieno d'acqua e circondato di felci, bambù e verdure varie, tanto da sembrare il rifugio dell'ultimo giapponese sull'isola deserta in attesa del nemico da abbattere. E tale era il nostro spirito d'avventura che come marines lì ci avventuravamo nelle ore postprandiali, sapendo dell'abbioccamento che prendeva al nostro nemico che riposava in una spartana brandina tra lucertole, mosche e topolini campagnoli vaganti. Al minimo rumore, il "mite vecchietto" brandiva una mazza primordiale e col passo di un gorilla, sbucava rapido dalla tana e soltanto la nostra giovane età e il terrore che drogava i muscoli delle gambe ci permetteva di metterci in salvo. Ricordo che Amicucci, avendo il problema di procurarsi l'acqua per irrigare tutto quel ben di dio sopra descritto, mise in atto una delle sue idee geniali. Il suo orto confinava con la locale fabbrica di lavorazione dei pomodori che, alla stagione, lavorava a ritmi forsennati. Ebbene, il furbacchione, deviò la tubazione che portava l'acqua alla linea di lavorazione e nottetempo, soddisfatto e sorridente, iniziò l'irrigazione dell'orto. Però, inesperto di quei lavori, non aveva ben calcolato i tempi dell'operazione, provocando un ritorno al punto di partenza di quel turbine d'acqua che bruciò tutti i motori dello stabilimento per un danno, che all'epoca l'avrebbe certamente rovinato. Il buon cuore del proprietario della fabbrica e la desuetudine, in quei tempi, di recarsi nei tribunali, per questioni che non fossero gravissime, salvarono dalla rovina, l'intera famiglia del nostro eroe. Oltretutto c'è da dire che Amicucci viveva della pensione di ferroviere che rappresentava sì un reddito sicuro e costante, ma doveva servire alla sopravvivenza di sei figli ancora "in casa". Ogni mese, dopo la riscossione della gratitudine dello Stato per i servigi resi (sic!), egli si recava nel bel mezzo della piazza del paese e con fierezza spropositata all'avvenimento, contava con gesti plateali le grosse carte da dieci lire per l'invidia di chi, all'epoca, doveva arrabattarsi nel trovare espedienti giornalieri per sopravvivere. Questo ed altri comportamenti, determinavano una certa antipatia dei paesani nei suoi confronti, ma la cosa piuttosto che dispiacergli lo riempiva d'orgoglio, tale era il nostro uomo. Quei soldi ostentati in pubblico, in privato non è che fossero troppo pubblicizzati. La famiglia non li vedeva proprio ed in assenza di una cassaforte e per la diffidenza che il vecchio provava nei confronti della banca, venivano da lui furtivamente nascosti in un luogo a tutti segreto; la qual cosa preoccupava i figli. Infatti un'inaspettata dipartita l'avrebbe privati di quell'unica fonte di sostentamento e dove avrebbero trovato il "tesoretto"? Ma ogni timido tentativo di fargli rivelare il nascondiglio ed ogni cauta ricerca effettuata, non avevano sortito alcun effetto. Una sola cosa era certa, per l'attaccamento che Amicucci aveva per quei soldi, doveva tenerli in loco molto vicino e facilmente raggiungibile. Il "nostro" poteva contare soltanto su due amici: uno disinteressato, l'altro un po' meno. L'ex capo stazione Cingolani rievocava coll'Amicucci, le peripezie che tutti i "garibaldini" all'epoca, raccontavano in famiglia, con gran gioia dei forzati astanti. L'Amicucci raccontava le proprie ed entrambi criticavano ogni cosa avvenisse nel paese. Seduti sugli scalini esterni della casa del capo stazione a riposo, interrompevano le loro velenose contumelie soltanto al passaggio di qualche giovane ninfa: entrambi avevano avuto trascorsi burrascosi in quel "campo". Se in ogni porto, il marinaio ha una morosa ad attenderlo così in ogni Stazione, ogni ferroviere viveva le stesse situazioni. Il secondo "amico" del mio bisnonno era Camillaccio, ferrivecchi ambulante, alla continua ricerca di qualche buon affare da concludere. Egli raccoglieva di tutto, ma le trattative per la compravendita, erano estremamente complesse e potevano durare ore, essendo questo scorrere del tempo ancora a misura d'uomo. Il sogno da realizzare per il nostro Camillaccio era la scoperta di una bella stufa in ghisa purché fosse "todesca", essendo la merce proveniente da quella Nazione estremamente solida e durevole nel tempo: la guerra aveva pur insegnato qualcosa! Da quando l'occhiuto ferrivecchi, interessatamente itinerante nell'orto dell'amico" ferroviere, n'aveva adocchiato una nell'angolo della cantina, ingombra d'ogni cianfrusaglia, la loro amicizia era diventata "fraterna". Però, l'incedere rattesco e furtivo di Camillaccio e le sue timide "avance" non convincevano Amicucci, anzi lo rendevano estremamente sospettoso ed ogni visita o proposta erano state sospese. Non era infrequente vedere i tre compari, fare capannello: uno arringava, uno aspettava per intervenire sul ragionamento, l'altro sembrava interessato, ma alla stufa "todesca" ed a come metterci le mani. L'Amicucci che era vedovo da tanti anni, abitava con una delle sue numerose figlie in una casa nella circonvallazione del paese. Con loro era a "pensione" il marito della figlia che come avrete capito, non era in sintonia col "vecchio". I rapporti si erano definitivamente deteriorati per la vicenda del "pollo lesso". Durante il passaggio del fronte di guerra, un giorno, la famigliola comprendente l'Amicucci con la figlia, il genero ed i loro due figli, era a tavola con un convitato che all'epoca era da ritenersi più importante del Generale Clark: malvolentieri, troneggiava nel mezzo della tavola un pollo lesso di provenienza alquanto sospetta. Tutto era pronto per l'inizio delle procedure quando suonò, improvviso ed intimidatorio, il sinistro suono della sirena, collocata sul campanile della chiesa del paese e provvida "sentinella" per i bombardamenti aerei sull'aeroporto vicino. I cinque, seppur affamati, si guardarono in faccia e ciascuno vide negli occhi dell'altro il "gran vecchio" mulinare la fatidica falce. Al buio inforcarono con la morte nello stomaco, le scale che conducevano nella cantina ed acquattati e tremanti, attesero il cessato allarme. Nessuno ebbe la voglia e la forza di parlare: sapevano di aver colpevolmente lasciato la povera "creatura" indifesa sotto le possibili bombe "alleate". Quando finalmente la sirena liberatrice suonò il ritorno alla normalità, risalirono velocemente le scale: passata la paura, lo stomaco reclamava ancor di più i diritti di una vita stenta. La scena che si presentò ai loro occhi increduli, fu peggio del successivo arrivo delle truppe marocchine. Sul mezzo della tavola, dove prima soggiornava controvoglia il bel pollo, ora c'era soltanto la sua carcassa, ripulita come quella dei dinosauri esposti al museo. Soltanto quando lo stupore e l'inebetimento furono vinti dal suono lancinante delle bestemmie di Amicucci, si accorsero che erano in quattro. Il pasciuto e gaudente quinto era colui che voi pensate. Nel momento della paura mentre Amicucci con la figlia ed i due nipoti, si precipitavano al piano di sotto, il genero, tranquillamente, al buio e indisturbato aveva alleggerito la carcassa dall'utile rivestimento. Poi, sazio e sarcasticamente sorridente si era portato a distanza di sicurezza dalle prevedibili rappresaglie del vecchio. Due mesi dovette evitare il ritorno e la doppietta a pallettoni dell'Amicucci, poi il suocero cedette, ma soltanto come diceva sua figlia: "per la gente"; in quei tempi ormai lontani, i panni sporchi si lavavano in famiglia, quasi sempre. Comunque l'affronto non fu lavato ed in seguito ogni occasione era buona per farsi dei dispetti. Avvenne che in un pomeriggio di tempesta, Amicucci, vedendo il vento sollevare il bandone di lamiera che faceva da tetto al suo capanno, accorse per fissarlo e con quella preoccupazione in testa, scivolò nel vascone pieno d'acqua torbida e gelida. L'uscirne carponi non fu un problema e tutto bagnato, sbestemmiando le espressioni più orride, riprese il lavoro al tetto. Data la sua proverbiale pignoleria, ci volle più di un'ora. Quando finalmente si decise a rientrare in casa, sua figlia si trovò davanti un orso "findus" canadese, sia per l'aspetto sia per la pericolosità. Incurante del rischio, lo affrontò con decisione e fece di tutto per ripulirlo e ficcarlo a letto. La prima operazione gli riuscì, per la seconda avrebbe avuto bisogno della "decima Mas" di Junio Valerio Borghese che essendosi inabissata da tempo, non potette assolvere il compito. Il mattino dopo, Amicucci, nonostante la forza erculea e la salute ferrigna, si risvegliò con una febbre da elefante e nonostante il tentativo d'alzarsi in tutti i modi, dovette arrendersi. Nel pomeriggio il mercurio del termometro tentava con forza l'uscita dal contenitore di vetro sconfitto soltanto dagli agguerriti anticorpi del vegliardo. Mentre l'amorevole prodigarsi della figlia leniva le pene fisiche e morali del padre, qualcun altro se la godeva di gusto. Il genero dell'Amicucci, dopo aver timorosamente spiato dallo stipite della porta dell'infermo ed avendone constato la possibile dipartita, si recò al Bar Lanciotti e divulgò l'inaspettata notizia. Tutti gli avventori, conoscendo il soggetto della nostra storia, s'interessarono chi più chi meno, al racconto sghignazzante del "cronista" improvvisato. Tra i "più", c'era Camillaccio che aveva drizzato le orecchie pelose e s'era avvicinato al bancone con sordidi intenti. Egli tràttolo a parte, l'apostrofò sull'eventualità di ricavare una bella sommetta da quell'inaspettato evento. Conosceva l'animo umano e soprattutto i rapporti tra suocero e genero. Tra il proporre l'affare ed il realizzarlo passò meno di un'ora. I due congiurati, entrarono silenti nella cantina dell'Amicucci e sollevarono con estremo sforzo la stufa in ghisa "todesca". Cercavano di non far rumore, ma soltanto chi non ha conosciuto quei carrarmati potrebbe credere che si potesse ottenere quel risultato. In effetti, volarono scaffali, bottiglie di vino, crollò un vecchio cantarano che era sopravvissuto al disastro ferroviario del '919 sulla linea Ortona a mare - Avezzano. Mentre i due cadevano per l'ennesima volta accusandosi a vicenda, al piano di sopra c'era un'orecchia tesa all'ascolto: certo, era la sua! Nonostante le pessime condizioni fisiche, l'Amicucci era sempre vigile, com'era nella sua malfidata natura. Al primo scatorciare alla porta del suo dominion, s'era fatto ancora più attento. Quando poi sentì tutto quel macello, sollevò il corpo dall'infausto giaciglio ed inforcate le braghe, indossata la camicia, s'affacciò alla finestra. I cospiratori erano già oltre la porta, ma non a distanza di sicurezza. Amicucci trafelato, ma deciso nel proposito di riuscire a prendere con una fava due piccioni, arrivò all'armeria, caricò la doppietta con due cartucce corazzate (usate per la caccia al cinghiale) e di corsa tentò di rientrare in direzione finestra. Sciaguratamente, all'angolo tra il ripostiglio e la sua camera, transitava senza segnali acustici, la donna di fatica della portata d'un quintale circa, recante un vassoio col pranzo per il principale, consistente in una cuccumella di tacconelle abruzzesi al sugo di castrato, un piccione arrosto morto, una tonna d'insalata, due mele, un bicchiere vuoto ed un litro di "rosso" manufatto dallo stesso padrone con amore, ma risultante di scarsa qualità. Le inevitabili conseguenza furono: la fatidica fava in mano ed il volo dei due ambiti piccioni. Per verità ce ne fu una terza: il cazzotto col quale l'Amicucci si rifece in parte del danno subito e l'occhio pesto che la domestica esibì al maresciallo dei carabinieri della locale caserma (caso archiviato per l'età avanzata del primo contraente). Nel frattempo che mi dilungavo in inutili quisquilie, i due cospiratori avevano raggiunto la salvezza. Il giuda, riceveva i "denari" del tradimento che avrebbe dissipato in pochi giorni di bagordi e non ricordo dopo quanti mesi rientrò in casa, certamente a suocero morto. Camillaccio ebbe la sua bella stufa "todesca" che non aveva alcun collegamento con l'uovo di Pasqua, salvo la sorpresa. Infatti, quando, con la massima cura, ne ispezionò l'interno, trovò con somma meraviglia, il tesoro dell'Amicucci, i soldi di una vita, nascosti in quel pertugio per paura che depositati in banca sarebbe stato imbrogliato. Amicucci Amodio, morì di vecchiaia, pochi giorni dopo; noi sappiamo come andarono le cose. Molti "clienti" si meravigliarono che Camillaccio non gli recasse più visita, ma non più di tanto, il personaggio era strambo del suo. Un paese dell'America latina s'arricchì (sic!) d'un altro emigrante, stavolta ricco di metallo nobile. Le stufe "todesche" sono state sostituite dai più economici e funzionali radiatori.