"Quell'ultima carica" (in memoria di Giuseppe Lazzari)
Non è da tutti avere un "lanciere" per amico.
Ebbene io l'ho avuto.
Giuseppe Lazzari era uno se non l'ultimo sopravvissuto dell'ultima carica della Reale Savoia Cavalleria nella piana di Isbucevski, Campagna di Russia, nell'agosto del '942.
Da ragazzo frequentavo la barbieria del signor Livio che era situata dove la piazza del paese da vita alla via che conduce al fiume.
Quel tipo di locale che normalmente è frequentato dagli avventori che potete immaginare, nel nostro caso, era il ritrovo di una variopinta cerchia di personaggi che al tempo, agli occhi di un giovinetto, rappresentavano una vera "scuola di vita".
Come usava un tempo, mio padre, mi aveva introdotto nel locale per il primo taglio di capelli "da grande".
Rispetto ad oggi, l'operazione era estremamente semplice: taglio corto e solo con la forbice.
Il mio ricordo va alla troneggiante poltrona semovente, al telo a quadretti stile tovaglia che veniva stretto come cappio al collo; lo sforbiciare ed io che dalla posizione a testa all'ingiù, tentavo di guardare gli avventori che si alternavano continuamente ed ascoltavo le loro chiacchiere di uomini adulti.
Una nuvola di borotalco e lo spazzolare rapido sul collo, terminavano l'operazione che lasciava comunque in me due sensazioni: una fastidiosa, che era il persistere per giorni dei residui del taglio, l'altra, di grande curiosità per quei discorsi che svelavano anche se sotto metafora, per la presenza della "siepe", la variegata gamma di comportamenti sessuali.
In seguito presi a frequentare regolarmente il locale, tanto da diventare un esperto in pettegolezzi e sconcerie che riportati in casa, venivano regolarmente zittiti e severamente puniti da mia madre.
Mio padre era uno dell'allegra brigata, ma in sua presenza coi discorsi non si andava oltre la decenza.
Era famoso per l'affresco a Natale della vetrina d'ingresso, essendo bravo e geniale nelle caricature.
Ricordo che il tema della vetrina cambiava ogni anno, ma il barbiere capo che era gobbo e con i piedi piatti, vi figurava sempre e nelle posizioni più strane.
Nel girovagare ozioso che facevo all'interno del negozio, più volte spiavo dalla vetrina in strada.
Ascoltavo distrattamente il parlottare sui soliti argomenti che col tempo erano diventati per me familiari ed un poco noiosi, nello stesso tempo cercavo una qualche nota d'interesse all'esterno del locale che per la sua posizione permetteva di svariare a centottanta gradi.
M'aveva sempre incuriosito una figura che stazionava regolarmente all'angolo opposto della via.
Era un bell'uomo, un poco curvo, sulla settantina, coi capelli di seta bianca, mani grandi e soprattutto con occhi indescrivibili.
Normalmente si etichettano come "occhi azzurri" oppure "occhi chiari", ma i suoi erano cangianti, quando li spalancava, e lo faceva spesso, per rafforzare la parte più sensazionale delle sue storie, un bagliore improvviso ti colpiva e non potevi che provare un brivido se invece dei pantaloni avessi indossato la gonnella.
Signori, ero di fronte a Lazzari Giuseppe, per tutti: "Il Lanciere".
Questo lo appresi in seguito.
Al momento della nostra conoscenza, fui colpito dall'estrema disponibilità di una persona anziana nei confronti d'un ragazzo, all'epoca era cosa alquanto insolita.
Peppe, com'era chiamato, dopo aver lavorato alla grande Officina meccanica del paese, svolgeva funzione di recapito pacchi, che scaricati dal pulman, venivano inoltrati col carrettino ai vari destinatari, prodighi nei confronti dell'ingombrante ma utile fattorino, per il servizio reso.
Della sua esperienza lavorativa all'officina, Peppe il lanciere, conservava la misera pensione ed una scheggia di ferro nelle vene, che roteando gli occhi, mostrava con orgoglio, facendola scorrere su e giù nel solco dell'avambraccio.
Non era certo questa sua performance a spingermi tutti i giorni nel suo personale "speake corner", c'era ben altro.
Storie di guerra, d'amori proibiti, proverbi paesani, istruzioni per l'uso (del membro).
Non so ancor'oggi quale percentuale nella miscela, vi fosse di verità e fantasia; una cosa è certa, il risultato era inebriante.
I nostri incontri carbonari, venivano interrotti soltanto da due eventi: dall'arrivo del pullman (interesse non guasta amicizia) e dal tremulo richiamo proveniente dal vicolo attiguo: "Peeeppe, Peeeppe!".
Era Ines, l'adorata moglie del nostro, che per tutti era "Ignessina".
Questa inerme donnetta, esercitava sul possente lanciere, un imperio che non sono mai riuscito a capire, il fascino femminile essendo irresistibile e misterioso.
Ora, quando non eravamo interrotti da questi ineludibili richiami, Giuseppe Lazzari, indossava idealmente la sua divisa di militare e sul filo della memoria mi trasportava, come il Barone di Münchhausen col suo cavallo alato, sui campi di battaglia, veri o presunti ch'essi fossero.
Il nostro "eroe" era un Lanciere del Savoia Cavalleria che si fregiava dell'ottimistico motto "Savoje Bonnes Nouvelles", di stanza a Pinerolo e comandati dall'intrepido Colonnello Bettoni che con essi, valorosamente, convolò a miglior vita.
Per coloro che leggeranno queste mie righe e non abbiano conoscenza dell'arma, fornirò alcuni utili rudimenti:
Cavalleria (dal Devoto - Oli): nell'accezione militare, milizia a cavallo.
Come arma combattente ebbe origine presso gli Assiri (IX Sec. a.C.) e i Persiani; fece poi parte degli eserciti greci e romani.
Nelle milizie cartaginesi, la cavalleria numidica fu spesso un fattore risolutivo durante le guerre puniche.
Arma fondamentale durante il Medio Evo, essa decadde alquanto tra il XV e il XVI sec. in seguito alla diffusione delle armi da fuoco.
Le modalità d'impiego della c. furono particolarmente curate da Gustavo Adolfo di Svezia nei primi decenni del XVII sec. e soprattutto da Federico il Grande di Prussia e dal suo generale Friedrich Seydlitz intorno alla metà del XVIII sec.: in tal modo fu perfezionata quella manovra d'urto, da parte d'ingenti formazioni di cavalleria che venne largamente sfruttata da Napoleone nelle fasi decisive di alcune sue memorabili battaglie.
In Italia i primi reggimenti di c. furono istituiti per l'esercito piemontese nel 1668, formando il nucleo della futura c. italiana, che raggiunse il massimo sviluppo alla vigilia del primo conflitto mondiale con 30 reggimenti (4 di dragoni, 8 di lancieri, e 18 di cavalleggeri). Nel periodo 1850-1871 l'arma era suddivisa in c. di linea o pesante (dragoni e lancieri) per il combattimento e in c. leggera (ussari e cavalleggeri) per servizi di perlustrazione e di pattuglia.
A seconda delle specialità, armi della cavalleria erano la lancia o la sciabola.
L'ultima carica di cavalleria fu quella del reggimento Savoia Cavalleria nella sacca di Isbucevski in Russia (agosto 1942) che col sacrificio di quasi tutti i suoi effettivi, valse il ripiegamento delle nostre truppe accerchiate da ingenti forze nemiche.
Prima di narrare con la voce del nostro contemporaneo sopravvissuto, quell'eroico ultimo atto, ce ne sono di penultimi da riempire cento racconti.
Ogni volta che era sollecitato a raccontare, Peppe non si faceva certo pregare.
Allargava la bocca in un sorriso a fetta di anguria, roteava gli occhi "bianchi", guardava intorno circospetto come spia in territorio nemico ed attaccava, sollecitando, con pollice ed indice posti a forcella, la bocca a liberare le parole.
All'inizio eravamo io e lui, alla fine dei racconti, si contavano almeno dieci persone sorridenti, perché la sua visione della vita era farsa e non tragedia.
Le narrazioni più ricorrenti erano quelle sulle avventure galanti e vanno prese come tutte le altre, con il beneficio del dubbio.
Il nostro casanova, era campione nel salto dal balcone, ne aveva il coraggio e la possanza atletica.
Certo in vecchiaia si limitava ad assalti assai meno pericolosi.
Alcune volte, veniva chiamato dalla fruttivendola per accatastare le cassette di frutta nel ripostiglio retrostante il negozio; mentre ella dagli stessi contenitori estraeva le varie pezzature di quel ben di Dio, il lanciere, nel vedere di sottecchi, quella giovin donna supina, estraeva la vecchia zagaglia e "lancia in resta", caricava senza trovare resistenza nella succosa "pesca", il che lasciava supporre una qualche provocazione e poco fastidio.
In quel turbinio di passioni, chi fuggiva, in ordine sparso, erano arance, mele, pere e limoni che dal retro cercavano scampo ruzzolando nel negozio per lo stupore degli attoniti passanti.
"Peeeppe!"......"Peeeppe!", sul più bello del racconto....riecco Ignessina che con voce tremula lo richiama all'ordine.
Quell'indomito guerriero si fa circospetto, intima col dito accosto al naso, il silenzio e docile come un fox terrier, si avvia ciondoloni, sempre sorridente, verso la donna del suo destino; china amorevolmente verso di lei il capo, ruota con dolcezza la testa in direzione di quegli stenti sussurri, (Peppe è un po' sordo), raccoglie le richieste e con un goffo inchino, saluta e felice se ne va.
Di quello spensierato periodo della mia vita ricordo tante situazioni surreali, personaggi, avventure picaresche e bramosie non appagate, ma gl'incontri col "lanciere" erano irrinunciabili, in particolar modo quelli che entravano nel vivo di quella carriera militare che gli aveva marchiato a fuoco quel soprannome così conosciuto nel nostro paese, ma anche nel circondario.
E' per me difficile stabilire una classifica dei racconti più divertenti o di quelli che su sollecitazione, Lazzari Giuseppe narrava più e più volte, variandone spesso i particolari.
Adotterò un criterio selettivo e didascalico:
- Come domare un cavallo di razza araba.
- Cognizioni relative alla sifilide e sua prevenzione.
- Della sfida a mezzo fumo.
- L'arrivo d'una tappa del Giro d'Italia.
- Quell'ultima carica: nei luoghi della memoria e(a nostro beneficio) figurata nel borgo e dintorni.
Giuseppe, dopo il periodo di rigida istruzione a Pinerolo, venne inviato con lo squadrone in Africa del Nord e lì fece conoscenza per la prima volta con i cavalli di sangue arabo.
Questi sono la razza più pregiata, il corpo è elegante, con muscolatura armonica, pelo corto di colore nero o grigio, di pezzatura media, altezza alla spalla un metro e mezzo, caratteristica da tutti conosciuta e temuta, la sua natura focosa e indomabile.
Un razzente satanasso da prendere con le molle.
Ebbene negli ozi forzati di Bengasi tra i cavalieri annoiati, era invalsa l'abitudine ai giochi ed alle scommesse, la più seguita era quella relativa al tentativo di montare Abish, un diabolico puledro selvaggio che scalpitava espirando fiamme dalle froge del naso.
Nessuno era riuscito nell'impresa.
Ora se c'era qualcuno che aveva tutte le carte in regola per montare puledri selvaggi, era il nostro "eroe".
E lui non si tirò indietro: in un afoso pomeriggio, di fronte a tutta la compagnia estasiata e svociante, trasformò in men che non si dica, quel satanasso in un dolce smorfioso.
Ora la leggenda narra che Lazzari, balzato atleticamente in sella, ai primi accenni di scavalcamento, urlò " nelle orecchie di Abish in lingua "berbera" le magiche parole: "Ishigavà - Buasherì -Uishdà".
Il cavallo come colpito da un duro rimprovero del padre: nobile cavallo di puro sangue arabo d'indole molto severa, reclinò la fluente criniera nel segno dell'obbedienza.
Il nostro lanciere fu portato in trionfo.
Quella notte furono fuochi e bagordi; una delegazione, festante ed un poco alticcia, "colonnellata" dal Bettoni, rese visita al casino di Bengasi con grande soddisfazione ed appagamento (pecuniario) delle prodighe inquiline.
Nella versione del fatto a me dedicata, Peppe rivelò che le magiche parole sussurrate nell'orecchio del focoso puledro furono: "Si nun te ferme subito, scendo e te do un calcio sui cojoni che senza operazione, divente subito 'na puledra!".
Qualche minimo, comprensibile dubbio rimaneva in me.
Per solito nel bel mezzo d'un avvincente racconto, riecco risuonare le note stridule della lamentosa litania: "Peeeppe, Peeeppe!!" E subito militarmente il lanciere scattava sull'attenti, pronto per la pericolosa commissione, non prima d'avermi terminato la vicenda col rostandiano immancabile "tocco".
Una narrazione scientifico pecoreccia che ancor'oggi mi stupisce fu quella incentrata sull'efficacia dell'escamotage che Giuseppe mise in atto, sempre in Africa, per prevenire il flagello della sifilide.
Contravvenendo alle disposizioni dell'ufficiale medico del reggimento che sconsigliava il rapporto con le ragazze di pelle nera, il nostro, anti segregazionista inconsapevole, frequentava costantemente le ragazze, non riuscendo a tenere a freno la "bestia".
Però aveva appreso da certo "Negroni", un compaesano facente funzioni di "medicone- stregone", ufficialmente riconosciuto per tale, un sistema infallibile.
Prima di piantare l'asta della bandiera del Reggimento sull'ennesima "buca" conquistata, trasferiva il sempinterno mozzicone di sigaro "toscano", che solitamente pendeva dalle sue labbra a quelle dell'organo che potete immaginare.
L'effetto che si otteneva era paragonabile allo spruzzo dello spray contro gli insetti: fuga rapida degli agenti nemici e campo libero per lo svuotamento della canna.
La sfida col "medico curante il Re, la Regina e i reali successori", come enfaticamente il nostro "lanciere" etichettava l'ufficiale medico, non si limitava nel contravvenire ai suoi ordini nell'avventura africana, ma era iniziata nel periodo di addestramento in quel di Pinerolo.
Il capitano Perruchet aveva avuto l'onore di appartenere all'èquipe medica che aveva a cuore la salute dei Reali, in seguito per spirito d'avventura, aveva chiesto ed ottenuto il permesso di essere aggregato al Savoia Cavalleria destinazione Africa del Nord.
Nella verità sono contenute diverse sfaccettature, in quella raccontatami, veniva sottolineato dal Giuseppe che una componente fondamentale nella decisione di aggregare il capitano al Reggimento, fu il suo incompatibile vizio del fumo con le sensibili qualità olfattive di Sua Maestà la Regina che nonostante il bel capitano fosse nelle sue grazie, non riusciva a tollerare il "puzzo" del "toscano" e dopo innumerevoli richiami, a malincuore, dette il benestare alla fuoruscita del bravo medico. Le Reali narici avevano prevalso sulle ragioni del cuore, e su questa faccenda non vogliamo andare oltre.
Quello che in alto era considerato un imperdonabile difetto, in basso era un affratellamento;
tant'è che il mio compaesano per dimostrare al Perruchet la sua stima personale e di tutta la Compagnia, lo sfidò in duello all'ultimo.......sigaro.
A questo punto del racconto, gli astanti a bocca aperta, pendevano dalle labbra di Peppe che volente o nolente, roteava gli occhi "bianchi", guardava l'orologio del campanile e constatando ch'erano
le "due di tocchetta" (l'orologio di lì a poco avrebbe "battuto" le due), giustificandosi con la scusa dell'arrivo dell'autobus da Perugia, dava appuntamento a "tra poco" e teatralmente abbandonava gli occasionali fans (ben altri erano i servigi che il bugiardone andava a rendere) che delusi e bramosi di conoscere il finale, s'apprestavano al bivacco divagando sugli argomenti classici del paese: calcio, politica e corna.
Io naturalmente conoscevo a menadito tutte le storie, ma pur comprendendo le pene del volgo, mi guardavo bene dal lenirle intromettendomi nella narrazione: per rispetto del mio amico, ma soprattutto per inadeguatezza nel ruolo.
Il tempo di consegnare quel genere di "pacco" ch'è abbastanza impegnativo e il Lanciere tornava sulla scena del racconto.
La "maratona del toscano" era la sfida "estrema" tra Giuseppe Lazzari di Bastia Umbra, lanciere in formazione, ed il navigato Capitano Perruchet, piemontese di Alessandria e consisteva nel chiudersi a doppia mandata, dall'interno, nell'ambulatorio del Reggimento e stipate alcune casse di sigari, dar vita, senza interventi esterni, alla fumigazione all'ultimo sangue, dei propri organi vitali, finchè la morte d'uno dei due non fosse sopravvenuta, determinando la vittoria del sopravvissuto.
Soltanto alcune decine di Dragoni e Cavalleggeri fecero compagnia ai preoccupati ma invidiati Lancieri nell'assistere dalle finestre, alla disfida.
Assistere per modo di dire, infatti dopo circa un'oretta dall'inizio, la saletta era talmente piena di fumo che soltanto l'intuito permetteva di fantasticare sull'esito dell'incontro.
Dopo due ore, il fumo cominciava a filtrare dalle fessure delle finestre e della porta.
Lo stato d'animo degli spettatori trasmutava dall'iniziale esaltazione e divertimento alla preoccupazione ed allo scoramento.
Per quel caso che traccia il solco della nostra esistenza, il leggendario Colonnello Bettoni si trovò a passare nei pressi alla ricerca del medico per farsi curare un fastidioso foruncolo al soprassella.
Quando il "valoroso" vide quel tumultuoso assembramento, temendo che il cuoco ne avesse combinata un'altra delle sue, scese con un sol balzo dal focoso baio e fendendo la truppa si rivolse deciso al più alto in grado che con voce tremolante riassunse rapidamente la situazione.
Immediatamente furono sfondate porta e finestre.
Ci volle del tempo per aerare il locale.
Perruchet era disteso in terra nella posa che gli ordinati preti assumono per ringraziamento, per lui la motivazione era sicuramente diversa, seppur allo stesso Ente stesse rivolgendosi per il suo futuro alloggiamento.
Lazzari immerso in un'azzurrognola nuvoletta di fumo che affezionata sembrava non volesse più lasciarlo, scavava coi gomiti il tavolo di quercia, le mani avvinghiate ad un mozzicone acceso.
Quando le due fessure oculari percepirono il movimento d'una qualche forma umana, il corpo rimase rigidamente immobile, ma le cineree labbra lasciarono cadere il mozzicone e da quel pertugio una voce d'oltretomba, con estrema difficoltà, sillabò: "S.i.g.a.r.i!", "S.i.g.a.r.i!, "A.l.t.r.i. s.i.g.a.r.i!".
Le severe punizioni comminate dal Colonnello Bettoni furono proporzionate alla stupidità della sfida, si poteva non consentire, ma capire quella alla spada, ma non si poteva esser messi alla burletta per quel "tutto fumo e gnente arrosto"!
Naturalmente il Capitano Perruchet sopravvisse e pagò un conto meno salato rispetto al più giovane e meno "graduato" Lazzari, ma per tutti il trionfatore da Guinness ante-litteram, fu il nostro campione che fu festeggiato al casino di Torino, dove al termine d'una serata memorabile per affluenza di cavalieri e "giumente", al nostro furono concesse, da una piemontesina bella, tutte le "intimità" possibili e immaginabili.
Al termine della narrazione, il pubblico divenuto col tempo folla, scoppiava in uno scrosciante applauso e Peppe piuttosto che esserne contento, guardava timoroso verso l'angolo del vicolo, ove, richiamata da tutto quel frastuono, sarebbe potuta apparire la rigorosa maestrina.
Ignessina era insuperabile per bontà e dedizione, ma l'amore per il suo uomo non ottenebrava il suo senso pratico che le suggeriva severi richiami al gigione onde non esporlo al pubblico sollazzo.
Era nei nostri incontri clandestini che il "lanciere" dava le migliori prestazioni di cantastorie e d'attore, infatti intercalava al verbo, il movimento del corpo adeguato alla situazione contingente.
D'altro canto Giuseppe e i suoi compagni del 7° Lancieri Savoia erano veri attori e lo dimostrarono in molte circostanze, ma fu in virtù del loro "phisique du röle" se riuscirono ad evitare una carneficina al termine della tappa ciclistica Milano-Pinerolo del Giro d'Italia.
Una squadra, scelta alla compagnia tra chi nutriva interesse per quello sport, era di servizio d'ordine pubblico col Tenente Coltelli sulla linea d'arrivo della kermesse.
Giuseppe non era un appassionato di sport che non fosse il "solito" tandem, ma pur di uscire coi compagni, aveva professato come tutti gli altri, la sua fede in Belloni di Milano, ottimo finisseur, ma eterno secondo nei confronti del più furbo Girardengo.
In tal senso, era con un certo spirito di rivalsa che gli alteri cavalleggeri, s'erano avviati verso le tribune dello stadio, sincronicamente ciondolanti coi cavalli che montavano.
La lunga fettuccia di terra battuta che di lì a poco, i sottili "palmer" delle biciclette avrebbero solcato, per il momento era invasa da una moltitudine di tifosi vocianti che soltanto l'arrivo dei "nostri" riuscì a disperdere.
L'elettricità era nell'aria come il calore della giornata estiva che a differenza del freddo, fa ardere le passioni e le rende spesso irragionevoli.
Quando l'altoparlante gracchiò l'imminente arrivo dei corridori, il pubblico istintivamente si sporse verso la pista, ciascun per vedere oltre la testa protesa dell'altro.
Soltanto il corpo dei Lancieri per l'innato senso della dignità e del rispetto alla divisa, da dietro la fatale linea d'arrivo, non mosse crine.
All'ingresso delle multicolori maglie dentro lo stadio, si scatenò l'ira di dio, il gruppo sgomitante fu ben presto inghiottito dall'impenetrabile nube di polvere della pista e prima dell'imbocco dell'ultima curva che immetteva al rettilineo d'arrivo, s'intravide il Belloni in testa con a ruota Girardengo ed il francese Buisse.
La stragrande maggioranza dei suivers era già in piedi delirante quando.... avvenne il fattaccio.
Nell'immettersi nella curva, dove l'inclinazione delle ruote è massima e la stabilità minima, il Girardengo, vistosi perduto, scartò con la ruota anteriore su quella posteriore di Belloni provocandone l'uscita fuori pista e volando egli stesso per le terre.
A mano alzate vinse Buisse, ma fu l'unico a varcare quella linea.
Tutto il pubblico, per opposte e disparate ragioni, invase il terreno con intenzioni non proprio pacifiche.
I Lancieri che avevano assistito con curiosità allo svolgersi della volata quando videro l'ingiustizia perpetrata, per quel sentimento così nobile che animava la loro stessa esistenza e pregnava il loro spirito in battaglia, sguainarono le spade al fine di riparare al misfatto e risarcire il povero Belloni almeno col cimelio della testa del suo scorretto antagonista.
Un ufficiale viene promosso a codesto rango per il sale che porta nella zucca a differenza di quelle rape dei sottoposti ed il Tenente Coltelli non voleva certo inficiare quest'assioma per quei ridicoli cursori in mutande che agitavan le piazze rubando il mestiere ai "rossi" che almeno era gente seria.
In men che non si dica, l'ufficiale con imperio, aveva ricondotto la squadra ai propri doveri, la pista fu liberata, i soccorsi avviati, ristabilito l'ordine, una carneficina a fil di spada evitata.
Come nei migliori romanzi dove l'umorismo s'alterna alla tragedia, così il racconto più coinvolgente del nostro lanciere è quello che vado modestamente a narrare.
Quando su mia sollecitazione, per la centesima volta, Giuseppe Lazzari, Peppe per gli amici, il "lanciere" per tutti, raccontava quell'ultima carica, il bel volto sereno s'increspava ed una luce malinconica velava quei begli occhi bonari.
Nella mente scorrevano le immagini cruente di amici perduti, cavalli morenti, sferragliar di metalli, puzzo di polvere da sparo e di bruciaticcio d'uomini; tutta una vita in bilico tra la casa avita e quella eterna.
Ancora oggi l'ultima carica del Savoia Cavalleria a Isbucevski nella Campagna di Russia del '942 è ricordata negli annali di tutto il mondo quale fulgido esempio di coraggio e dedizione alla Bandiera e alla Patria.
Il 17° Lancieri, comandati dall'impavido Colonnello Bettoni, stante la ferrea cintura che accerchiava la nostra fanteria in fondo alla vallata, discese il pendio in disciplinato trotto poi riordinate le fila, si lanciò al galoppo sfrenato contro le batterie russe.
Quando la cavalleria è in movimento, ed è fatta oggetto di un fuoco violento, se è troppo coraggiosa per pensare di ritirarsi, istintivamente accelera l'andatura e galoppa avanti il più velocemente possibile per venire a contatto col nemico al più presto.
L'impatto fu tremendo, il combattimento furibondo liberò dall'assedio le nostre truppe.
Circa 300 uomini avevano preso parte alla carica lungo la valle e ne erano tornati 85. Rimasero uccisi 200 cavalli.
Il Generale russo Woronzoff, avendo ammirato la carica di "quei terribili cavalieri", si rivolse ad uno sparuto gruppo di sopravvissuti: "Siete nobili soldati, vi farò portare della vodka".
Tra i sopravvissuti, l'avrete già capito, il nostro amico.
Per chi volesse approfondire con minuzia di particolari quell'ultima carica del Savoia Cavalleria, ne troverà i resoconti puntuali, più o meno romanzati, nei libri ad essa dedicati.
Per noi del paese vale la narrazione del nostro Omero che sollecitato da qualche burlone, per rendere comprensibile anche allo stolto la vicenda, ipoteticamente la trasportava dalla brulla vallata della Russia centrale alla nostra verdeggiante pianura.
"Noialtre...", attaccava il lanciere spalancando gli occhi, "facete finta, scendevamo dal Ponte de la Bastiola (località frazione del paese) e vedemme i cannone russi da Cinquino (località che prende il nome dei proprietari di un molino). Prima de le sbarre de la stazione (ferroviaria), 'l colonnello dette la "carica", quanno fussemo da Trabalza (presso la casetta d'un nostro concittadino, a metà strada fra il ponte ed il molino) arrivorno i primi siluri e c'era chi cascava di qua e chi di là.
Io me buttò n'tol fosso, bello lungo, co' le mani n'te le recchie. Nel so quanto ce stette, quanno me so' rialzato ho pisciato sulle mani per disinfettà le ferite (il racconto era accompagnato dalla mimica, ma anche dai gesti: morso al palmo delle mani, fuoruscita del disinfettatore...) e nun ho fatto a tempo a fa' altro. Me se so' presentati due o trecento crucchi (mutuato dai suoi precedenti nella prima guerra mondiale) che l'eveno mannati a cercamme perché nun m'altrovavano tra quelli ch'eveno presi. (a questo punto roteava le bianche pupille, lasciando intendere che il suo nome era sulla lista nera dei nemici).
Quanno m'arlasciorno, (si passava direttamente alla fine della guerra) la tradotta (il treno militare) fermò a Fontivegge (stazione ferroviaria di Perugia) e io da la voglia d'arvedè Ignessina....... con quattro salti pei campi venne giù de volata a la Bastia (notare che Bastia dista circa 20 chilometri da Perugia percorrendo l'attuale Superstrada S.S.75).
La gloria, a volte, non è così cristallina come si penserebbe.
Ma tant'è....
La morte della moglie Ines, segnò la vita di Giuseppe che non si riprese mai più da quel distacco.
Come avrebbe potuto sopravvivere un uomo dimezzato?
Disperato ed ormai depresso, andò a vivere col figlio, fuori dal paese.
Una livida domenica di mezz'inverno, sotto una gelida pioggiarellina, un carro trainato da quattro maestosi cavalli, condusse Lazzari Giuseppe nell'ultimo tragitto dalla chiesa al campo santo del paese.
Sopra l'affusto di cannone, la bara del nostro eroe era avvolta nella bandiera del 17° Savoia Cavalleria ed era sormontata dall'elmo, la spada e la mantella con lo Stemma Reale, con le quali Giuseppe aveva servito il proprio Paese.
Al seguito tutte le Autorità cittadine e della Regione, una rappresentanza dei reduci del Reggimento, il rappresentante del Ministero della Difesa e di Casa Savoia.
Mentre la cassa calava lentamente nella terra consacrata, alte e struggenti si levarono le note del silenzio d'ordinanza ed una raffica a salve di moschetti fece sollevare uno stormo di piccioni che volteggiarono nel cielo.
Questo sogno ha popolato per tanti anni le mie notti.
In realtà non so quando, come e dove, Giuseppe Lazzari, detto Peppe il lanciere, sia morto.
Il nostro paese l'ha dimenticato, come non fosse mai esistito ed anche io comincio a crederlo.
Nelle notti d'insonnia, m'affaccio al balcone che domina la piazza e guardo con nostalgica tristezza il monumento equestre ivi situato in onore all'Eroe dei Due Mondi, ebbene, voi non mi crederete: gli occhi bronzei lentamente si schiudono, due celesti pupille ruotando vorticosamente comandano alla bocca un radioso sorriso.
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